Sempre sul convegno di Vimercate (di cui al post precedente)

La diffusione e fruizione di siti letterari in rete ha seguito gioco forza la diffusione stessa del medium internettiano, che guarda caso ebbe quali primi fruitori gli ambienti universitari di mezzo mondo, mentre oggi si sta avverando la profezia di John Ziman di una genesi internettiana di nuove comunità di sapere che con gli ambienti universitari hanno poco da spartire. E non ho ancora capito se Ziman consideri il fenomeno come apprezzabile o pericoloso per lo sviluppo dei saperi; forse semplicemente si limita egli a indicare il senso del movimento e a prospettarne le conseguenze.

 

Certo: chi ritenesse le università uniche sedi per lo sviluppo di conoscenze autorevoli, dovrebbe vedere come un pericolo lo sviluppo di blog dove si punta a fare critica letteraria in modo altrettanto autorevole. Viceversa, chi ritenesse troppo a senso unico lo sviluppo dei saperi in sedi universitarie per tradizione caratterizzate da processi di gerarchizzazione del consenso, e io sono tra questi, non potrebbe che salutare la prospettiva Ziman con un “lunga vita ai lit-blog”.

 

In ogni caso le nuove comunità di sapere internettiane generano processi culturali in grado di lasciare un segno non solo se sono animate da “teste fini”, ma anche se acquisiscono consapevolezza della natura del mezzo entro il quale si muovono, coi suoi limiti e i suoi punti di forza, e i suoi margini di ottimizzazione tecnologica. In tale senso ben venga la percezione, più o meno oggettiva, di una crisi dei blog di poesia: condividere un’ampia riflessione sulle ragioni della crisi e le prospettive per un suo superamento è innanzitutto un’azione di crescita di consapevolezza. E di abbattimento dei vari deliri di onnipotenza che in rete hanno visto circolare troppi profeti di una web revolution che avrebbe finalmente conquistato le masse colpevolmente abbandonate dall’editoria tradizionale. Ho il sospetto che la categoria della “morte dei lit-blog” enunciata con singolare energia da Matteo Fantuzzi nel suo blog UniversoPoesia (http://www.universopoesia.splinder.com/post/22467554#comment), più che rispecchiare un presunto stato di fatto, presunto perché per certificare un decesso occorre sempre un certificato di un ufficiale sanitario, risenta delle frustrazioni generate da tale comprensibile sogno mancato. Comprensibile, dico, perché io stesso lo cullai quel sogno il giorno in cui esordii in rete ed ebbi la percezione di essere letto da molte ma molte più persone di quante mi avessero letto nei vent’anni trascorsi dalla mia prima scrittura poetica finita dentro un libro. 

Una considerazione per superare la crisi è forse allora quella di accettare che i confini della comunità di curatori e lettori di poetry-blog siano necessariamente ristretti, ma relativamente ampliabili.

La poesia in rete, dicevamo, è per pochi o per tutti? La rete in teoria è per tutti, in pratica riproduce, date le sue spiccate potenzialità interattive, i modi di aggregarsi e cooperare dei mondi da cui provengono i suoi attori.

Inevitabile quindi che si riproducano gruppalità sia di tipo chiuso (tendenti all’autosufficienza, alla creazione di propri codici esclusivi, alla ritualizzazione di processi iniziatici altamente selettivi) sia di tipo aperto (tendenti al costante ricircolo dei membri, all’assunzione di codici comunicativi di largo uso, all’abbassamento della soglia minima della “sottoscrizione” per entrarne a far parte). Sia gli uni che gli altri compensano vantaggi e svantaggi: per esempio quelli chiusi agiscono su verticalità sconosciute a quelli aperti, i quali tuttavia non corrono i rischi di implosione, addirittura fino al suicidio collettivo, connessi con l’abissalità cui una ricerca comune può spingere.

In internet i gruppi chiusi tendono all’invisibilità, a rifluire verso forme di incontro nel cosiddetto “mondo reale”, nel faccia a faccia, o a passwordizzarsi, creando archivi online protetti da sguardi esterni, dove vivisezionare i propri saperi (ce lo immaginiamo un gabinetto anatomico in una pubblica piazza?) mentre quelli aperti tendono alla migrazione verso piattaforme tecnologiche e aree tematiche tali da garantire la massima accessibilità. A costo di rischiare che il tenore del discorso rimanga appunto “da piazza”, o da “happy hour”. 

Tra questi estremi, i blog collettivi sono quelli che sicuramente rischiano di più in termini di spinta progettuale: contenitori generici o testuggini d’assalto? In tale prospettiva trovo che vada sicuramente riqualificato il modello del blog con un unico gestore, o al limite con una piccola redazione di tipo piramidale o radiale. Evitano cioè i rischi tipici delle aggregazioni gruppali per assunti di base, per riprendere un tema caro alla gruppanalisi di scuola Wilfred Bion, pronte ad impallarsi contro fantasmi di nemici esterni (gli Editori, le Accademie, i Cenacoli), o promesse messianiche di redenzione (poesia alle masse via internet, e se Facebook tira meglio, meglio Facebook), o elezioni di una leadership salvifica (il geniale organizzatore-manager col più bel progetto nel cappello per divulgare il verbo poetico contemporaneo nella sinergia fra virtuale e reale).

Tuttavia il modello suddetto è efficace solo se offre un’alternativa al “monologo plurale” (recupero l’ottima definizione che l’amico Federico Zuliani dà delle discussioni in rete: somme di monologhi), attraverso uno sguardo autorale/filologico che, per quanto individuale e autonomamente marcato, anziché orbitare attorno alla propria poetica, presti ascolto e attenzione alle differenti, e spesso molto differenti, poetiche con le quali entra in relazione. 

La, o le, comunità sono necessariamente ristrette, ma lo sono relativamente. Se “poesia per tutti” è ansiogena rincorsa del marketing culturale, delle logiche dei grandi numeri, degli ascolti massmediatici, allora la morte della poesia, prima ancora che quella dei lit-blog, è dietro l’angolo. Ma se il tessuto relazionale di chi anima i poetry-blog conserva uno stato di efficace resistenza all’omologazione e al tempo stesso di apertura potenziale, di capacità di attrarre nuovi consensi e partecipazioni, in altre parole di comunità aperta, di costante ridisegnarsi di mappe e territori, allora bisogna osservare i segnali di conferma, o smentita, che possono giungere in tal senso. Mi sembra, per fare solo un esempio, che l’ingresso di nuovi partecipanti in due dei blog che seguo di più ultimamente (Blanc de ta nuque e La dimora del tempo sospeso), sia non eclatante ma costante.

E comunque la storia si ripete: quando arrivò la fotografia in molti si affrettarono a decretare la morte della pittura; e quando toccò al cinema, la morte del romanzo; e la morte del cinema quando arrivò la tivù; per non dire della morte della radio… Ora siamo alla morte dei blog letterari? Il buon McLuhan, che la sapeva tanto lunga sui mass media da pronunciare il fatidico “il medium è il messaggio”, aveva ben presente che il messaggio, per quanto esposto alla legge dell’entropia universale, tende comunque ad una sorta di autoconservazione.

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