Si inaugura qui un piccolo progetto di ricerca attorno alle forme di scrittura poetica che risultano contaminate da vissuti al confine tra mondi distanti, come possono essere per l’attore quello del quotidiano e quello della costruzione performativa, in tutto l’arco di tensione che va dal laboratorio/spazio di prova al palcoscenico/spazio di rappresentazione, o per il migrante il mondo che si lascia e quello in cui si approda. In entrambi i casi la lingua ne è profondamente segnata, in misura più eclatante, certo, per il poeta migrante, o figlio di migranti, che vive una lingua-non-madrelingua; in misura più sottile per il poeta attore, che nel conflitto fra l’oralità della scena e il deposito scritturale della letteratura drammatica, gioca la sua professione, rimanendone inevitabilmente segnato quando si dedicasse lui stesso alla scrittura.
Se un progetto ha radici nel vissuto, ebbene, una mia professione nel teatro unita alla, solo apparentemente “corta”, migrazione fra due provincie dalla spiccata eterogeneità culturale, la bergamasca d’origine e la brianzola d’adozione, divise da un grande fiume, l’Adda, insomma ciò mi sembra sufficiente a giustificare l’interesse per la materia!
E si inizia coi classici due piccioni presi con una fava: mettere a fuoco il lavoro di un’attrice che si occupa di poesia e che vive la condizione di figlia di migranti e a sua volta migrante, Candelaria Romero. Perché parto da lei? Quanto mai immediato mi risulta il colloquio: siamo stati in scena insieme in più occasioni, tra il 1994 e il ‘98, in un’esperienza che mi ostino a definire di “teatro di base” nonostante non fossero più gli Anni Settanta.
Candelaria, quando ti dedichi alla scrittura poetica la senti come una sorta di prolungamento della scena, dove corpo e voce attorali continuano a vivere anche in assenza di un rapporto faccia a faccia con lo spettatore, oppure preferisci dar vita ad uno spazio creativo altro, dove le istanze dell’attrice rimangono fuori dalla porta?
Più passa il tempo e più mi rendo conto che il teatro che voglio e tento di fare è quello che sta più vicino all’atto dello scrivere poesie. L’atto della scrittura poetica è per me un esercitare l’ATTENZIONE, stare cioè ATTENTI a ciò che si vive dentro e fuori il corpo. E questo dovrebbe per me esserci anche nel teatro. Stare attenti, presenti, ascoltare, ascoltarsi. In questo senso, secondo mio parere, il teatro e la poesia sono interscambiabili; mi piace trovare della poesia nella scena, nelle immagini, nella musica e nella parola. Mi piace anche trovare nell’atto poetico la forza che ha il teatro nel suo FARE; un FARE poesia, un dire la poesia, non solo scriverla, ma portarla oralmente tra la gente. Portare la poesia oralmente tra la gente è però un arduo mestiere, più difficile che interpretare un ruolo teatrale. Ma questa è un altra storia da raccontare.
Sai, il progetto di PoesiaPresente contempla anche quest’orizzonte di cui parli, il lavoro costante sull’oralità della poesia. E ti confermo che non è per niente semplice metterlo in atto! Condivido la tua fatica. E sono sicuro che questa “storia” che ci potresti “raccontare” sarebbe ascoltata attentamente da chi segue le nostre iniziative, e non solo da loro…
Sento che la poesia sia qualcosa di sacro e di quotidiano, al contempo anima e corpo, carne e soffio. Portare la poesia fuori dalle pagine diventa un gesto naturale ma al contempo straordinario. La poesia è per tutti. È di tutti. Tutti abbiamo bisogno di poesia. L’oralità non ci appartiene più e facciamo fatica ad ascoltare ed ascoltarci. Ci vuole un grande esercizio di attenzione e direi di coraggio per esercitarla veramente. L’oralità va quindi esercitata, va vissuta, va allenata. Ho trascorso delle ore con Mariangela Gualtieri, all’interno del suo corso sull’oralità e la poesia. È stata un esperienza immensa e terribile (come gli angeli di Rilke). Con lei ho vissuto la paura nell’affrontare la mia voce, il mio respiro, la mia inesperienza, nonostante una vita di teatro! Mi sono sentita piccola, fragile e muta. Ho dovuto spogliarmi di tutte le tecniche e denudarmi, togliermi le armature di dosso. Ancora ci sto lavorando, non sono del tutto nuda. Credo ci vorrà una vita intera per arrivare alla trasparenza. Non ho fretta. Credo che questo intento di portare la poesia nell’oralità faccia parte di un percorso di vita ed ho appena iniziato ad ascoltare il silenzio.
Sono fermamente convinto di quanto dici. L’oralità per la scrittura letteraria è come il lievito per il pane, solo che oggi la panificazione fa anche ricorso a lieviti da sintesi chimica… Mi colpisce in particolare questa tua idea attorno alla trasparenza che, se intrecciata al tuo percorso migratorio, si scontra con l’opacità della lingua. Già una lingua è opaca di per sé, non lascia passare che a sprazzi il mondo di immagini che attraversa la mente; lo è per chi la frequenta fin dalla pancia di sua madre, figuriamoci per chi ha dovuto impararla – o voluto, come nel tuo caso che, se non ricordo male, eri venuta in Italia dalla Svezia per seguire il lavoro di ricerca del (ormai mitico, diciamolo pure) Teatro Tascabile di Bergamo. Se lo spagnolo parlato in Argentina ti ha fatto da madrelingua e lo svedese da secondo abito, oggi a che punto è il tuo rapporto con questa terza lingua, l’italiano?
Dico trasparenza e mi riferisco a quella cosa dalla quale idealmente poter partire per provare a stare in ascolto, per poter poi scrivere. Se poi la lingua che uso è lo svedese, lo spagnolo o l’italiano, poco importa. Certo, più conosco una lingua e più diventa una mia alleata ma sono convinta che la scrittura PARTE da un urgenza e da uno stato di attenzione; da una trasparenza, appunto. L’italiano per me è la lingua in cui mi muovo quotidianamente; sogno in italiano, mangio in italiano, faccio l’amore in italiano, ho partorito in miei figli in italiano, scrivo in italiano. È una lingua viva, vive in me e vivo in lei. Lo spagnolo sono le mie radici, ma non è una lingua con la quale convivo. Lo svedese è la lingua della mia infanzia, della mia adolescenza, ma ancora una volta, non è la lingua delle mie giornata odierne. Se sto per un po’ in Svezia torno a scrivere in svedese e quando torno in Argentina, dopo un po’ le parole che scrivo passano dall’italiano allo spagnolo. Come se cambiassi registro. È abbastanza divertente!
Invece i tuoi genitori scrittori, Mario Romero (interrogato su quale fosse secondo lui il più importante scrittore sudamericano, Nicanor Parra, figlio della grande cantautrice cilena Violeta Parra, citò proprio un certo Mario Romero, lo sapevi?) e Marisa Villagra, dopo l’esilio in Svezia hanno continuato a scrivere solo in spagnolo o anche in svedese?
Che sorpresa questa cosa di Parra! Anche se non dovrei sorprendermi. Mio padre e mia madre, persone umili nell’anima, dei veri poeti, non ripetevano, non usavano mai i complimenti fatti nei loro confronti. Tante cose vengo a saperle dopo. Loro hanno vissuto per la loro poesia con anima e corpo, senza umiliarla mai. Troppo sacra per loro la poesia per usarla come bandiera per farsi vedere. Non so come dire. Comunque, sì, hanno sempre scritto in spagnolo, non hanno mai potuto e voluto usare un’altra lingua per esprimersi poeticamente. Scrivevano per il gusto di scrivere, sforzarsi a scrivere in un’altra lingua non rientrava nel loro schema mentale, tanto c’erano i traduttori, se proprio dovevano far conoscere le loro poesie agli svedesi. Alcune loro poesie le trovi nel sito di El Ghibli (www.el-ghibli.provincia.bologna.it), devi guardare nei numeri precedenti.
Ti ringrazio davvero per la disponibilità a metterti in gioco. Spero che anche quanti ci leggono possano condividere questo grazie. Poesie di fine mondo, dunque, è uno sguardo apocalittico ad una fine che ci attende, o è l’addio ad un mondo per migrare in un mondo rinnovato?
Poesie di fine mondo è la fine di un mondo interiore che mi sono portata dentro per un certo periodo, per una certa tratta del mio vivere. È infatti una raccolta che racchiude alcune poesie che sono state scritte dal 1988 al 2009. Non c’è uno sguardo apocalittico, anche se tutti parlano di questo mitico 2012, anno nel quale dovrebbe finire questo mondo secondo un certo calendario indigeno, ma questa è un’interpretazione sbagliata; in realtà sta a significare la fine spirituale di un certo tipo di vivere che secondo loro avrebbe cambiato dal 2012 in poi. Non parlo nemmeno di una migrazione ma di cose che finiscono e che aprono la strada ad altre cose. Alcune poesie le ho scritte mentre davvero sentivo che il mondo mi stava cadendo addosso ma questo è un altro paio di maniche… sai, c’è un cartello stradale salendo il cammino che porta da Tucumàn verso le pre-Ande (zona dove sono nata io), si chiama Il cammino dei Sosa, ad un certo punto si vede questo cartello, normalissimo, sulla strada che dice “fin del mundo”. Ed è veramente la fine di un mondo e l’inizio di un altro, quello dell’alta montagna con tutta la sacralità che la contraddistingue. Ecco tutto.
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Candelaria Romero, nata in Argentina (Tucumàn) nel 1973 da genitori poeti, trascorre la sua infanzia tra la Bolivia e la Svezia, trasferendosi nel 1992 in Italia (Bergamo) dove svolge attività di scrittura e di teatro. Pubblica nel 2010 per la casa editrice Aracne di Roma “Poetica e teatro civile – tre monologhi per Amnesty e Survival Italia”. Per saperne di più: www.operaidelcuore.it/romero/romero.htm